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giovedì 20 marzo 2008

Lettera aperta dei precari dell'Università

di Pietro Renzi, Matteo Berardi, Luca Volpinari, Davide Bartolini, Francesca Renzetti, Elis Marzi, Silvia Ceccoli


Scriviamo questa lettera intenzionalmente dopo il referendum perché essa non nasce come indicazione di voto ma come spunto di riflessione riguardo alle forme di lavoro sulle quali il referendum verteva e sul comportamento di sindacati e governo in merito a queste.
Essendo un gruppo di giovani lavoratori, da tempo in collaborazione con contratto a scadenza annuale con l’Università degli Studi siamo direttamente interessati all’argomento. Non per questo però la nostra iniziativa vuole essere un attacco alle due istituzioni di cui sopra, ma vuole aprire, se possibile, un confronto.

Capiamo che lo stato attuale delle cose, l’economia in trasformazione e la globalizzazione, necessiti di nuove forme contrattuali, introdotte per sbloccare un mercato del lavoro troppo “ingessato”. Queste però hanno una giustificazione fino a quando non vengono utilizzate dai datori di lavoro per avere vantaggi economici e posizioni dominanti nel rapporto lavorativo.
Per far sì che questo non accada basterebbe applicare le leggi esistenti e, dove possibile, migliorarle. Oltre a ciò dovrebbero esserci degli organismi di controllo efficienti che vigilassero sulla corretta attuazione delle leggi e sul fatto che il datore di lavoro, già in posizione dominante per via della forma contrattuale, non possa sfruttarle a suo ulteriore vantaggio.
Non è corretto, infatti, che il datore di lavoro soddisfi il bisogno continuo di lavoratori con sole assunzioni temporanee. Si generano in questo modo situazioni che possono creare problemi se protratte per lungo tempo, soprattutto considerando che spesso a trovarcisi sono giovani appena entrati nel mondo del lavoro, con necessità importanti che riguardano il loro futuro: diventare indipendenti a livello economico e sociale o crearsi una famiglia. I contratti interinali e i contratti di collaborazione spesso non permettono di fare queste scelte, perché non danno una minima garanzia di stabilità e nessuna tutela sociale.

Analizziamo ora la realtà sammarinese: i contratti interinali e i contratti di collaborazione vengono applicati spesso indiscriminatamente, non per orizzonti temporali limitati. I datori di lavoro usano spesso il maggior potere sindacale dato loro da queste forme contrattuali ritorcendolo contro il lavoratore stesso. Anche se a volte non è esplicito, il lavoratore, soprattutto quando avanza richieste di miglioramento delle condizioni contrattuali o di assunzione, sa benissimo che potrebbe non avere possibilità. Egli può solo contare sull’esperienza che può avere acquisito negli anni come leva di contrattazione, visto che questi tipi di contratto permettono il “licenziamento” immediato.
Per orizzonti temporali così artificiosamente dilatati, la soppressione dei diritti sociali è inaccettabile. Cinquant’anni di dure lotte sindacali per l’affermazione dei diritti dei lavoratori vengono in questo modo annullate. Il lavoratore interinale si scontra con l’insicurezza del posto di lavoro e il lavoratore in collaborazione non ha diritto a malattia, versamenti pensionistici, ferie, tredicesima e licenziamento. Il regresso sociale è evidente. La più grave mancanza di tutela è però quella nei confronti della maternità, perché incide sulla possibilità delle donne di avere figli e mantenere il posto di lavoro.

In questo scenario pensiamo che le istituzioni coinvolte debbano muoversi per migliorare la condizione di noi giovani. Nella situazione attuale però, facendo solo un’analisi e non volendo sollevare polemiche, nessuno sembra interessarsi al problema. Il governo non ci risulta lo abbia mai affrontato, anzi attua esso stesso, per periodi lunghi, queste forme di contratto all’interno dei suoi organi. I sindacati, che per il loro ruolo ci aspetteremmo che fossero al nostro fianco per cercare di migliorare questa situazione, non sembrano interessarsi alla questione. Per inciso, siamo rimasti colpiti dalla presa di posizione dei sindacati per i referendum, non per il loro consiglio di non andare a votare, ma per le loro motivazioni: mentre la posizione può essere legittima, perché la legge c’è e potrebbe essere anche un valido punto di partenza, nessuna motivazione da essi portata accennava al fatto che bisognerebbe controllarne la corretta applicazione ed eventualmente migliorarla.

A questo punto possiamo dire che ci sentiamo poco rappresentati e tutelati dalle istituzioni. Non vogliamo dare una ricetta o delle soluzioni, ma ci aspetteremmo che a queste nostre esigenze legittime fosse data una risposta concreta. Pensiamo che il mantenimento dello status quo potrebbe portare anche a una crisi sociale, perché potrebbe minare i fondamenti su cui la nostra società democratica è stata fondata, quei valori che possono portare ad una valorizzazione e realizzazione della persona: l’indipendenza, il lavoro e la famiglia. Mettendo in discussione tali valori crediamo che i giovani difficilmente riusciranno a diventare adulti fiduciosi nella società, nella democrazia e nella politica.

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