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giovedì 20 marzo 2008

NON SI VIVE DI SOLO PANE ("Repubblica di San Marino - Tutto un altro mondo")

La nostra classe dirigente (e con essa, ahimé, buona parte della cittadinanza) ritiene la politica estera argomento di scarso o nullo interesse per il Paese, eccezion fatta per i complicati rapporti con l’Italia. Essa risulta perciò un po’ residuale anche a causa del ruolo insignificante del nostro Paese nel panorama mondiale, non essendo San Marino neppure una piccola potenza regionale.
I ministri degli esteri sammarinesi si sono sempre comportati come quell’amministratore della General Motors in America che diceva: “quello che va bene per la General Motors va bene per l’America”, così i nostri Segretari di Stato per gli Affari Esteri hanno sempre creduto in passato che, in campo internazionale, quello che andava bene per l’Italia andava sicuramente bene anche per San Marino. Ma anche i debiti di gratitudine più profondi, verso la vicina Italia, non possono essere sempiterni. Oggi sembra quasi che San Marino agisca invece come se fosse un Paese autarchico, senza una necessaria, anzi indispensabile, apertura verso l’esterno, verso il mercato globale, verso i valori più alti di una politica di difesa attiva dei diritti umani e dei diritti civili in tutto il mondo.
Così ci siamo allineati ai soli quattro Paesi europei che non hanno riconosciuto per evidenti motivi d’interesse economico (la dipendenza dalle fonti energetiche russe) i nuovi confini del Kossovo, mentre tutti gli altri (Italia compresa) si sono invece affrettati a dare positivi e concreti segnali di favore alla neonata indipendenza.
San Marino, in verità, ha sempre sostenuto (almeno a parole) una politica di apertura al dialogo e alla pace (“peacekeeping”), ma il dialogo e la pace, oggi, stanno rendendo un buon servizio ad israeliani e palestinesi martoriati dalla cieca violenza della nutrita ala dei falchi di Hamas (ampiamente sostenuti dal peggior terrorismo islamista internazionale)? O al popolo non sciita libanese vessato dagli Hezbollah (il “Partito di Dio” con il mitra nella bandiera)? O al popolo afgano continuamente terrorizzato dall’integralismo intollerante dei talebani? O agli stessi kossovari che per secoli hanno subito le violenze dei serbi più estremisti? O alle tribù del Darfur, dove il genocidio continua imperterrito nel disinteresse generale? O al popolo tibetano, oppresso dal dominio militare cinese? Come si fa a dialogare con chi rifiuta il dialogo? Come si fa a chiedere pace a chi la violenta quotidianamente?
Credo vi siano nel mondo molte zone di crisi dove l’intervento armato di forze di pace internazionali, confortate dalle stesse Nazioni Unite (che dopo sessant’anni andrebbero finalmente riformate) sia non solo auspicabile ma ormai indispensabile per riportare la pace (“peace enforcing”), la democrazia, i diritti umani e soprattutto salvare più vite possibili. Agire, non pontificare, risolvere i conflitti, non procrastinare decisioni all’infinito, imporre la pace, non invocarla. Credo che questa sia una vera e reale politica pacifista. Credo che, almeno per un piccolo Paese come il nostro, sia doveroso anteporre agli interessi economici, ai meri calcoli di convenienza, alle esigenze particolari di qualche micro azienda locale, una politica basata sui valori largamente condivisi di libertà, indipendenza, auto determinazione e di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, difendendo così una civiltà costruita faticosamente in millenni di storia.
Credo sia giusto, per lo meno in questi casi, anteporre i valori agli interessi economici, e ciò dovrebbe valere oggi anche nei confronti della Repubblica Popolare Cinese.

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